La situazione di malati cronici non autosufficienti (più spesso anziani) è grave. Continuamente i Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) assistono alle dimissioni dagli ospedali di malati veri, in maggioranza ultraottantenni, affetti da malattie cronico-degenerative e incapaci di provvedere autonomamente a se stessi se non con l’aiuto totale, continuo e permanente di altre persone, quand’anche non vi sia stato alcun contatto preliminare da parte dell’ospedale per costruire un percorso assistenziale condiviso, scevro da rischi, e comunque per poter verificare se esiste nell’immediato la possibilità concreta di presa in carico da parte delle strutture territoriali. E’ infatti vero che questi malati hanno bisogno di cure prolungate nel tempo che dovrebbero essere garantite prioritariamente a casa mediante interventi domiciliari medico-infermierisitici e di riabilitazione, ma la domanda è largamente esuberante rispetto le risorse umane dedicate e rimangono rari i servizi domiciliari di cura che consentano di attuare una effettiva e soprattutto immediata continuità terapeutica, anche in alternativa al ricovero ospedaliero. La legge prevede il diritto alla cura in strutture sanitarie, occorrendo anche in ospedale, senza limiti di durata, e stabilisce che le USL hanno l’obbligo di provvedere alla tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione, ma sono molti gli anziani malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali e costretti a ricoveri in istituti di assistenza non idonei alle loro esigenze. La realtà è drammatica soprattutto per i malati anziani che diventano vittime di gravi reati. L’emarginazione sociale costituisce, purtroppo, un terreno particolarmente fertile per la crescita di un terribile fenomeno di criminalità contro gli anziani più deboli e indifesi. La stampa quotidiana lo conferma, specialmente con notizie di reati commessi contro ricoverati in “ospizi lager”.
Nella situazione descritta, consci del ruolo affidato e delle proprie risorse (sottodimensionate rispetto ai reali bisogni degli assistiti) il personale dei Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) tiene a sottolineare che il reato di abbandono di persone incapaci previsto dall’articolo 591 del codice penale è uno dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, ch’esso interessa più diffusamente gli anziani malati cronici non autosufficienti. Per la sussistenza di questo delitto, non è necessario che si verifichi un danno ma basta che, in conseguenza dell’abbandono, si verifichi un pericolo per la incolumità personale del soggetto incapace che viene abbandonato da chi ne ha la custodia o ne debba avere cura, quindi anche il reparto ospedaliero che non cura nel modo dovuto una dimissione veramente protetta. Autore del reato in questione è – infatti - la persona che ha in custodia (anche in via occasionale e temporanea) o deve avere cura di un soggetto incapace e che in forza di detta relazione ha il dovere di non abbandonarlo. Se lo abbandona, con la coscienza e consapevolezza di lasciarlo in una situazione di pericolo, è penalmente responsabile. La Corte di Cassazione ha chiarito che la condotta criminosa di abbandono di incapace «consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale». Con riferimento specifico all’abbandono di anziani malati cronici non autosufficienti è significativo rilevare che, in varie occasioni, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di imputati per il reato previsto dall’articolo 591 del codice penale in casi di abbandono di ricoverati presso istituti di assistenza, specialmente a causa della mancanza di personale idoneo e della insufficienza di cure. Le note descrittive del reato previsto dall’articolo 591 codice penale e le sentenze di condanna per abbandono di malati anziani nell’ambito di istituti di assistenza debbono far riflettere seriamente quanti dimettono malati cronici non autosufficienti dagli ospedali senza una alternativa di cura adeguata alle loro peculiari condizioni cliniche, cosa che si realizza anche quando “la persona è affidata a soggetti inidonei (magari perché anziani anche loro) a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo”. Naturalmente per garantire l’alternativa non basta la dizione “rivolgersi al CAD” che si legge in molte lettere di dimissioni; ma occorre che ci sia stato un contatto preliminare da parte del reparto e che il CAD abbia dato assenso formale alla presa in carico. La sola lettera di dimissione con le predette caratteristiche, nel caso in cui il CAD non sia stato contattato preliminarmente ed abbia “risorse impegnate” e “non immediatamente mobilizzabili” è quindi del tutto inefficace e non impegna il CAD a fornire un assistenza immediata che oggettivamente non può dare. La lettera deve quindi essere una lettera di proposta di dimissione protetta (quindi inviata prima che la dimissione realmente avvenga!), e deve essere completa ed esaustiva sulle condizioni reali ed i bisogni dell’assistito, e non sommaria come molte lettere di dimissioni.
Di fronte alla emergenza che può derivare dalla dimissione ospedaliera di non autosufficienti ed incapaci di difendersi e di denunciare eventuali reati è stupefacente che si giunga, addirittura, ad esercitare una azione intimidatoria nei confronti dei familiari per costringerli ad accettare la dimissione ospedaliera, quand’anche sia evidente la loro inidoneità alla custodia (es. coniugi anziani, anche loro malati cronici). I mezzi di pressione psicologia usati nei confronti di familiari di malati cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale per “di accelerare la dimissione” oltreché cinici sono illegali. Infatti, la legge penale vieta l’uso di minacce contro una persona al fine di costringerla a fare qualcosa. L’art. 610 del codice penale 5 prevede che «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa commette il delitto di violenza privata». Questo delitto è previsto proprio allo scopo di tutelarela libertà psichica dell’individuo nella sua volontaria esplicazione. La Corte di Cassazione ha chiarito che la violenza e la minaccia sono punibili a norma dell’articolo 610 del codice penale anche quando con esse si voglia costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente illecita o immorale. A maggior ragione, quindi, la violenza e la minaccia sono punibili nel caso in cui il familiare di un malato cronico non autosufficiente venga costretto ad accettare la dimissione ospedaliera del proprio congiunto, visto che un familiare non ha alcun obbligo giuridico di accettare l’anzidetta dimissione, e che il suo comportamento non è neppure moralmente censurabile se il congiunto malato non autosufficiente non può essere curato ed assistito adeguatamente a domicilio. In riferimento al significato penalmente rilevante di “minaccia”, che più interessa in questa sede, riportiamo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione: «Minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole, o da altri per lui, alla persona o al patrimonio» . La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che «ai fini del delitto di violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo sia verso altri, idoneo a incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale intimidazione, che il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa» . Alla luce dei rilievi esposti, quindi, è punibile a norma dell’articolo 610 del codice penale chiunque costringa un familiare, con violenza o minaccia, ad accettare la dimissione ospedaliera di un congiunto malato cronico non autosufficiente e ad assumerne l’assistenza e cura a domicilio. Quando ciò avviene, accanto al dramma degli anziani malati cronici non autosufficienti fatti segno di pesanti discriminazioni e vittime di abbandono, si affianca anche il dramma dei familiari, vittime di violenza privata.
PERTANTO (INFORMAZIONI DA DARE AI FAMILIARI):
Prima di accettare le dimissioni dall’ospedale o da altra struttura sanitaria bisogna valutare attentamente la situazione.
- Deve farsi carico in proprio degli oneri di cura e di assistenza del congiunto malato e non autosufficiente presso la propria abitazione. In questo caso è sempre possibile chiedere l’attivazione delle cure domiciliari tramite il proprio medico curante; non sempre però il CAD è in grado di dare una risposta positiva in tempi soddisfacenti. Inoltre, il progetto approvato può risultare inadeguato alle reali esigenze del malato. Per i malati terminali, che ordinariamente vengono avviati all’Hospice, la situazione è sovrapponibile.
- L’assistito può entrare in una lista d’attesa, che può protrarsi anche per più di unanno, per un posto in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). Per accedere alla lista d’attesa è indispensabile richiedere la certificazione dell’Unità Valutativa Multidimensionale del CAD stesso di residenza del malato.
- In attesa di un posto in una struttura pubblica o convenzionata, o se non si ha la possibilità di assistere a casa la persona malata, provvedere al pagamento di circa 3000 euro mensili per un posto letto privato in RSA (Residenza sanitaria assistenziale).
QUINDI RICORDARE:
Gli anziani cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale (o in altra struttura sanitaria) non possono essere dimessi prima che siano state assicurate e organizzate – dall’Asl di residenza – le cure domiciliari (concordate con i familiari) o sia stata individuata la residenza socio-sanitaria (Rsa) per il ricovero definitivo. Se non si è in grado di assistere a domicilio il proprio congiunto, ci si può opporre alle dimissioni da ospedali / case di cura private convenzionate, qualora non sia garantita la continuità terapeutica in altra struttura sanitaria pubblica o convenzionata.