sabato 12 febbraio 2011

COME DIFENDERSI DALLE “DIMISSIONI SELVAGGE”

La situazione di malati cronici non autosufficienti (più spesso anziani) è grave. Continuamente i Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) assistono alle dimissioni dagli ospedali di malati veri, in maggioranza ultraottantenni, affetti da malattie cronico-degenerative e incapaci di provvedere autonomamente a se stessi se non con l’aiuto totale, continuo e permanente di altre persone, quand’anche non vi sia stato alcun contatto preliminare da parte dell’ospedale per costruire un percorso assistenziale condiviso, scevro da rischi, e comunque per poter verificare se esiste nell’immediato la possibilità concreta di presa in carico da parte delle strutture territoriali. E’ infatti vero che questi malati hanno bisogno di cure prolungate nel tempo che dovrebbero essere garantite prioritariamente a casa mediante interventi domiciliari medico-infermierisitici e di riabilitazione, ma la domanda è largamente esuberante rispetto le risorse umane dedicate e rimangono rari i servizi domiciliari di cura che consentano di attuare una effettiva e soprattutto immediata continuità terapeutica, anche in alternativa al ricovero ospedaliero. La legge prevede il diritto alla cura in strutture sanitarie, occorrendo anche in ospedale, senza limiti di durata, e stabilisce che le USL hanno l’obbligo di provvedere alla tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione, ma sono molti gli anziani malati cronici non autosufficienti dimessi dagli ospedali e costretti a ricoveri in istituti di assistenza non idonei alle loro esigenze. La realtà è drammatica soprattutto per i malati anziani che diventano vittime di gravi reati. L’emarginazione sociale costituisce, purtroppo, un terreno particolarmente fertile per la crescita di un terribile fenomeno di criminalità contro gli anziani più deboli e indifesi. La stampa quotidiana lo conferma, specialmente con notizie di reati commessi contro ricoverati in “ospizi lager”.

Nella situazione descritta, consci del ruolo affidato e delle proprie risorse (sottodimensionate rispetto ai reali bisogni degli assistiti) il personale dei Centri di Assistenza Domiciliare (CAD) tiene a sottolineare che il reato di abbandono di persone incapaci previsto dall’articolo 591 del codice penale è uno dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, ch’esso interessa più diffusamente gli anziani malati cronici non autosufficienti. Per la sussistenza di questo delitto, non è necessario che si verifichi un danno ma basta che, in conseguenza dell’abbandono, si verifichi un pericolo per la incolumità personale del soggetto incapace che viene abbandonato da chi ne ha la custodia o ne debba avere cura, quindi anche il reparto ospedaliero che non cura nel modo dovuto una dimissione veramente protetta. Autore del reato in questione è – infatti - la persona che ha in custodia (anche in via occasionale e temporanea) o deve avere cura di un soggetto incapace e che in forza di detta relazione ha il dovere di non abbandonarlo. Se lo abbandona, con la coscienza e consapevolezza di lasciarlo in una situazione di pericolo, è penalmente responsabile. La Corte di Cassazione ha chiarito che la condotta criminosa di abbandono di incapace «consiste nel lasciare la persona in balia di se stessa o di soggetti inidonei a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo, in modo tale che derivi un pericolo per la incolumità personale». Con riferimento specifico all’abbandono di anziani malati cronici non autosufficienti è significativo rilevare che, in varie occasioni, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di imputati per il reato previsto dall’articolo 591 del codice penale in casi di abbandono di ricoverati presso istituti di assistenza, specialmente a causa della mancanza di personale idoneo e della insufficienza di cure. Le note descrittive del reato previsto dall’articolo 591 codice penale e le sentenze di condanna per abbandono di malati anziani nell’ambito di istituti di assistenza debbono far riflettere seriamente quanti dimettono malati cronici non autosufficienti dagli ospedali senza una alternativa di cura adeguata alle loro peculiari condizioni cliniche, cosa che si realizza anche  quando “la persona è affidata a soggetti inidonei (magari perché anziani anche loro) a provvedere adeguatamente alla sua custodia ed alla cura o, comunque, insufficienti allo scopo”. Naturalmente per garantire l’alternativa non basta la dizione “rivolgersi al CAD” che si legge in molte lettere di dimissioni; ma occorre che ci sia stato un contatto preliminare da parte del reparto e che il CAD abbia dato assenso formale alla presa in carico. La sola lettera di dimissione con le predette caratteristiche, nel caso in cui il CAD non sia stato contattato preliminarmente ed abbia “risorse impegnate” e “non immediatamente mobilizzabili” è quindi del tutto inefficace e non impegna il CAD a fornire un assistenza immediata che oggettivamente non può dare. La lettera deve quindi essere una lettera di proposta di dimissione protetta (quindi inviata prima che la dimissione realmente avvenga!), e deve essere completa ed esaustiva sulle condizioni reali ed i bisogni dell’assistito, e non sommaria come molte lettere di dimissioni.
Di fronte alla emergenza che può derivare dalla dimissione ospedaliera di non autosufficienti ed incapaci di difendersi e di denunciare eventuali reati è stupefacente che si giunga, addirittura, ad esercitare una azione intimidatoria nei confronti dei familiari per costringerli ad accettare la dimissione ospedaliera, quand’anche sia evidente la loro inidoneità alla custodia (es. coniugi anziani, anche loro malati cronici). I mezzi di pressione psicologia usati nei confronti di familiari di malati cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale per “di accelerare la dimissione” oltreché cinici sono illegali. Infatti, la legge penale vieta l’uso di minacce contro una persona al fine di costringerla a fare qualcosa. L’art. 610 del codice penale 5 prevede che «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa commette il delitto di violenza privata». Questo delitto è previsto proprio allo scopo di tutelarela libertà psichica dell’individuo nella sua volontaria esplicazione. La Corte di Cassazione ha chiarito che la violenza e la minaccia sono punibili a norma dell’articolo 610 del codice penale anche quando con esse si voglia costringere altri ad adempiere ad un dovere giuridico o ad astenersi da una condotta genericamente illecita o immorale. A maggior ragione, quindi, la violenza e la minaccia sono punibili nel caso in cui il familiare di un malato cronico non autosufficiente venga costretto ad accettare la dimissione ospedaliera del proprio congiunto, visto che un familiare non ha alcun obbligo giuridico di accettare l’anzidetta dimissione, e che il suo comportamento non è neppure moralmente censurabile se il congiunto malato non autosufficiente non può essere curato ed assistito adeguatamente a domicilio. In riferimento al significato penalmente rilevante di “minaccia”, che più interessa in questa sede, riportiamo l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione: «Minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole, o da altri per lui, alla persona o al patrimonio» . La Suprema Corte ha precisato, inoltre, che «ai fini del delitto di violenza privata non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo sia verso altri, idoneo a incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale intimidazione, che il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa» . Alla luce dei rilievi esposti, quindi, è punibile a norma dell’articolo 610 del codice penale chiunque costringa un familiare, con violenza o minaccia, ad accettare la dimissione ospedaliera di un congiunto malato cronico non autosufficiente e ad assumerne l’assistenza e cura a domicilio. Quando ciò avviene, accanto al dramma degli anziani malati cronici non autosufficienti fatti segno di pesanti discriminazioni e vittime di abbandono, si affianca anche il dramma dei familiari, vittime di violenza privata.


PERTANTO (INFORMAZIONI DA DARE AI FAMILIARI):

Prima di accettare le dimissioni dall’ospedale o da altra struttura sanitaria bisogna valutare attentamente la situazione.
  • Deve farsi carico in proprio degli oneri di cura e di assistenza del congiunto malato e non autosufficiente presso la propria abitazione. In questo caso è sempre possibile chiedere l’attivazione delle cure domiciliari tramite il proprio medico curante; non sempre però il CAD è in grado di dare una risposta positiva in tempi soddisfacenti. Inoltre, il progetto approvato può risultare inadeguato alle reali esigenze del malato. Per i malati terminali, che ordinariamente vengono avviati all’Hospice, la situazione è sovrapponibile.
  • L’assistito può entrare in una lista d’attesa, che può protrarsi anche per più di unanno, per un posto in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). Per accedere alla lista d’attesa è indispensabile richiedere la certificazione dell’Unità Valutativa Multidimensionale del CAD stesso di residenza del malato.
  • In attesa di un posto in una struttura pubblica o convenzionata, o se non si ha la possibilità di assistere a casa la persona malata, provvedere al pagamento di circa 3000 euro mensili per un posto letto privato in RSA (Residenza sanitaria assistenziale).
QUINDI RICORDARE:

Gli anziani cronici non autosufficienti ricoverati in ospedale (o in altra struttura sanitaria) non possono essere dimessi prima che siano state assicurate e organizzate – dall’Asl di residenza – le cure domiciliari (concordate con i familiari) o sia stata individuata la residenza socio-sanitaria (Rsa) per il ricovero definitivo. Se non si è in grado di assistere a domicilio il proprio congiunto, ci si può opporre alle dimissioni da ospedali / case di cura private convenzionate, qualora non sia garantita la continuità terapeutica in altra struttura sanitaria pubblica o convenzionata.

domenica 6 febbraio 2011

Commedia all’italiana in più atti: “I rimborsi per l’espletamento del servizio di assistenza domiciliare usando il mezzo proprio se li paghi il dipendente”

Era un pò che non mi affacciavo al mio Blog, ma ce ne era bisogno. Se vero è che molte sono le aspettative  su questo setting assistenziale (ma siamo abituati alle leggi manifesto" che trattano di noi) nei prossimi mesi avremo di che parlare. Richiamo la vostra attenzione su un argomento abbastanza recente che sta mettendo a dura prova i nostri "nervi"...che ne dite?

Il D.L.n° 78/2010, convertito nella legge n° 122/2010, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” trattando, anche delle trasferte nel pubblico impiego, all’art. 6, ultimo periodo del comma 12, dispone che “A decorrere dalla data di entrata in vigore gli articoli 15 della legge 18 dicembre 1973 n° 836 e 8 della legge 26 luglio 1978 n° 417 e relative disposizioni di attuazione non si applicano al personale contrattualizzato di cui al D.lgs. 165 del 2001 e cessano di avere effetto eventuali analoghe disposizioni contenute nei contratti collettivi”.

L’art. 15 della legge n° 836/1973 disciplina l’utilizzo, previa autorizzazione, del mezzo privato di trasporto per attività di servizio; l’ambito di applicazione della norma è, però, differenziato dal momento che, mentre il primo comma si indirizza al personale assegnato allo svolgimento delle funzioni ispettive consentendo l’uso del mezzo proprio qualora lo stesso risulti più conveniente dei normali servizi di linea, il terzo comma, più genericamente, si rivolge, invece, al personale che debba recarsi, per ragioni di servizio, in altra località (diversa dalla ordinaria sede di lavoro) qualora l’orario dei servizi pubblici di linea sia inconciliabile con lo svolgimento della missione o nei casi in cui tali servizi manchino del tutto.

L’art. 8 della legge n°417/1878 disciplina invece la misura dell’indennità chilometrica (un quinto del prezzo di un litro di benzina super vigente al momento della missione) spettante per chilometro percorso nonchè il rimborso della spesa eventualmente sostenuta per pedaggio autostradale.

Il disposto di cui all’art. 6, ultimo periodo del comma 12, del decreto citato in premessa, perseguendo finalità di contenimento della spesa pubblica, nella sostanza mira, pertanto, non solo alla soppressione dell’uso del mezzo proprio, ma anche alla soppressione dell’indennità chilometrica, ragguagliata al prezzo della benzina, quale precedentemente prevista a titolo di rimborso forfettario delle spese sostenute per l’utilizzo del mezzo proprio. In sede di applicazione della norma anzidetta sono affiorate però non poche perplessità tant’è che parecchie amministrazioni hanno sollecitato opportuni chiarimenti in ordine alla portata applicativa del disposto.

Cosa succede nell’ambito dell’Assistenza Domiciliare?

Deve essere premesso che l’Assistenza Domiciliare è un’attività ricadente nei LEA, e dovrebbe avere una sua propria e adeguata dotazione strumentale necessaria all’espletamento della mission come lo sono gli apparecchi radiologici per il radiologo, la sala operatoria per il chirurgo, etc.. I CAD (Centri di Assistenza Domiciliare) da sempre cercano di fornire un servizio soddisfacente a fronte delle scarse risorse di personale e mezzi; in più fra buchi normativi e la cronica burocrazia pervadente la P.A., che rendono quasi una corsa ad ostacoli il raggiungimento degli obiettivi proclamati nei LEA.
Tale dotazione è ineludibile per gli infermieri stanti gli obblighi in ordine alla corretta gestione del “trasporto di materiale biologico” e dei “rifiuti speciali (materiale di medicazione, pungenti, etc.)”; quindi coloro che - appartenenti a queste figure professionali - di fatto stavano e stanno utilizzano il proprio automezzo erano e sono da considerare  potenzialmente  “fuori legge” (vedi nel blog i documenti sulla gestione dei rifiuti speciali in AD). - Per il restante personale dell’ADI: come specialisti medici della Unità Valutativa, Assistenti Sociali, Fisioterapisti, OSS, e assistenti domiciliari e dei servizi tutelari poteva fino adesso  ritenersi ammesso l’uso del proprio mezzo a fronte di una nota carenza di mezzi di servizio in dotazione alle Unità di Cure Domiciliari: con il nuovo intervento legislativo però, molte amministrazioni hanno sospeso i rimborsi o minacciano di farlo; quelle più virtuose hanno invece  trovato formule dove ammettono ancora l’uso del mezzo proprio per i servizi di assistenza domiciliare ma pretendono la sottoscrizione di moduli in cui il singolo dipendente deve lui stesso chiedere l’autorizzazione ad usare il proprio mezzo, contestualmente liberando l’Amministrazione da ogni responsabilità da quell’uso derivante.

Su tutta la faccenda mi sento di esprimere la mia opinione, ma vorrei che altri operatori del settore esprimessero anche la loro:

Prima questione: gli aspetti tecnici che seguono e che non sono la esclusiva chiave di lettura del sottoscritto sembrano far capire che molte amministrazioni pubbliche stanno con troppo zelo interpretando in maniera erroneamente estensiva la norma, rischiando di paralizzare molte attività o di renderle più costose, in palese violazione dell’art. 97 della Costituzione.  
Il danno erariale peraltro – minacciato dalla norma - non può discendere solo dal fatto che si è autorizzato l’utilizzo del mezzo proprio, ma dalla dimostrazione oggettiva che tale scelta sia stata antieconomica rispetto ad un'altra a parità di obiettivo conseguibile nell’ambito della mission istituzionale.

Seconda questione: "l'autorizzazione all'uso del mezzo proprio" non è un "favore" dell'Amministrazione al personale incaricato, ma anzi è esattamente il contrario. Difatti è il personale incaricato che garantisce la funzionalità e l'efficienza sul territorio per raggiungere posti o località non serviti da nessun mezzo pubblico o se anche serviti con risparmio sui tempi e la possibilità di fare più accessi in uno stesso giorno. Poiché non risulta che il dipendente possa essere precettato ad utilizzare il proprio automezzo e risulta invece che nessun CCNL contempli fra i requisiti il possesso e l’uso dello stesso per funzioni di servizio, laddove l’amministrazione renda la procedura complessa o vessatoria, tal che il dipendente non si renda più disponibile all’uso del proprio automezzo per servizio, questa potrebbe a modesto parere rispondere del fatto di avere del personale in organico assunto per espletare una data funzione, che però rende improduttivo  contravvenendo al già citato articolo 97 della Carta: cioè del fatto che gestisce antieconomicamente delle risorse umane.

La previsione di Legge cui ci si riferisce (Legge 18-12-1973, n. 836 “Trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali - Legge 26 luglio 1978, n. 417 “Adeguamento del trattamento economico di missione e di trasferimento dei dipendenti statali”) non è traslabile all’Assistenza Domiciliare (a ad altre attività territoriali) perché quest’ultima è un lavoro abituale svolto nella sede usuale di lavoro e non una situazione provvisoria di invio del dipendente in sede diversa per l’attuazione di particolari esigenze di servizio, vale a dire che non trattasi di  missione e trasferta. Infatti: consultando anche la documentazione del Servizio Studi del Senato sembra che la disapplicazione introdotta dal recente provvedimento legislativo concerne esclusivamente il personale adibito allo svolgimento delle precisate funzioni e non ha portata generale, non andando ad incidere sulla fattispecie del personale autorizzato all’uso del proprio automezzo per ordinarie ragioni di servizio.

il D.L. 78/2010, inappropriatamente interpretato ed estensivamente applicato quindi trascura diversi aspetti pratici che avrebbero ripercussioni negative sui cittadini fruitori dei servizi pubblici erogati.

La modulistica che prevede sia il dipendente a richiedere l’autorizzazione all’uso del mezzo proprio non è automaticamente estendibile al personale di assistenza domiciliare, sia perché l’attività non rientra nella tipologia “missione e trasferta”, sia perché l’art 15 della L. 836/73 è diretto ”AL PERSONALE CHE PER LO SVOLGIMENTO DI FUNZIONI ISPETTIVE…”, ed è quanto meno singolare che una norma renda inapplicabile qualcosa che in origine era destinato ad un tipo preciso di personale anche per altro tipo di personale: in sostanza non è assolutamente rintracciabile con quale norma era stato stabilito che, ciò che concedeva l’art. 15 al personale ispettivo, era estendibile anche a tutto il personale contrattualizzato ex Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

In sostanza se l’uso in servizio del mezzo proprio diventa un rebus (Il sole 24 ore 13 settembre 2010), consigliandosi un atteggiamento prevalentemente improntato alla “prudenza” nell'applicabilità dell'articolo 6 comma 12 del Dl 78/2010 per non mettere in grosse difficoltà le amministrazioni, sembra assolutamente più ragionevole lasciare la scelta della soluzione più favorevole e praticabile al singolo Direttore di UOC, che dovrà utilizzare i criteri previsti all’art. 97 Costituzione, in piena coscienza delle risorse disponibili in assoluto ed in relazione al momento in cui le prestazioni debbono essere erogate. L’amministrazione da parte sua dovrà vigilare alla corretta  e più economica gestione della materia attraverso gli organismi istituzionali preposti: Internal Auditing; Nuclei di Valutazione; Controlli di Gestione. I Dirigenti di dette Unità dovrebbero trasmettere gli elenchi del personale per cui è prevista questa fattispecie e l’Amministrazione dovrebbe provvedere alle debite coperture assicurative.

Cosa succede se una Amministrazione troppo zelante non  intende rimborsare ovvero mette in atto una procedura non condivisa e non accettata dal lavoratore?

In ognuno dei due casi credo logico attendersi che quest’ultimo non utilizzi più il mezzo proprio per servizio e quindi si interrompa o si riduca sensibilmente  la produttività di quel servizio.
Qui è quantomeno opportuno rilevare che per integrare il reato di interruzione di pubblico servizio di cui all'art. 340 C.P. sarebbe sufficiente che l'entità del turbamento della regolarità dell'ufficio o l'interruzione del medesimo, pur senza aver cagionato in concreto l'effetto di una cessazione reale dell'attività o uno scompiglio durevole del funzionamento, siano stati idonei ad alterare il tempestivo, ordinato ed efficiente sviluppo del servizio, anche in termini di limitata durata temporale e di coinvolgimento di uno solo settore (VI sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 26077 depositata il 9 giugno 2004). In tal caso è legittimo chiedersi chi verrebbe chiamato a risponderne: i dipendenti che smettono di usare il proprio mezzo, o l’amministrazione che con le proprie determinazioni ha fatto cessare una disponibilità non obbligatoria per legge? Potrebbe forse essere questa una situazione tale da far trovare il lavoratore della sanità fra l’incudine e il martello?
Certo è che i sanitari sono consapevoli che i servizi penalizzati sono importantissimi  e delicati, ma fino a che punto è possibile che si sfrutti il loro senso di responsabilità e lo spirito di servizio ?
Come vedete il discorso è molto complesso, certamente ci vuole molto buon senso e cautela, come raccomandava il Sole 24 ore; certamente sarebbe necessario che il cittadino (non opportunista!) faccia sentire la propria voce, sia nel merito di una norma molto discussa per la sua mancata chiarezza, sia per la manifesta non conoscenza del legislatore di come funzionano ed operano di fatto alcuni servizi pubblici.
Dite la vostra!

venerdì 11 maggio 2007

Ritorna il problema delle ondate di calore:

sul portale della Regione Lazio è pubblicato il “Piano operativo regionale di intervento per la prevenzione degli effetti sulla salute …”

http://www.regione.lazio.it/web2/contents/sanita/sala_stampa/news_dettaglio.php?id=126

leggete e pubblicate le vostre riflessioni sul piano.

giovedì 3 maggio 2007

Attenzione al trasporto dei rifiuti sanitari!!: è cambiata la norma...

Il 29 aprile 2006 è entrato in vigore il Decreto Legislativo 152/2006 recante “Norme in materia ambientale” (Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006).
Il provvedimento riscrive le principali regole in materia ambientale ed è articolato in sei sezioni che disciplinano le seguenti materie:

  • Disposizioni comuni, finalità , campo di applicazione
  • Valutazione impatto ambientale, valutazione ambientale strategica, autorizzazione unica
  • Difesa del suolo tutela e gestione delle acque
  • Rifiuti e bonifiche
  • Tutela dell'aria
  • Danno ambientale


Alcune disposizioni contenute nella nuova norma sono immediatamente applicabili dalla data di entrata in vigore del decreto.
In particolare dal 29 aprile per i produttori di rifiuti speciali non pericolosi e di rifiuti speciali pericolosi che non eccedano i 30 Kg o litri /giorno che intendono trasportare con i propri mezzi i rifiuti prodotti è scattato l’obbligo di iscrizione all’Albo Gestori Ambientali. (già Albo Nazionale delle Imprese che effettuano la Gestione dei Rifiuti).
Infatti l’art.212 del D. Lgs. 1252/2006 al comma 8 dispone che “le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare, nonché le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano trenta chilogrammi al giorno o 30 litri al giorno, non sono sottoposte alla prestazione delle garanzie finanziarie di cui al comma 7, e sono iscritte alla sezione Albo nazionale gestori ambientali a seguito di semplice richiesta scritta alla sezione Albo regionale territorialmente competente senza che la richiesta stessa sia soggetta a valutazione relativa la capacità finanziaria e alla idoneità tecnica e senza che vi sia l’obbligo di nomina del responsabile tecnico. Tali imprese sono tenute alla corresponsione di un diritto annuale di iscrizione pari a 50 euro rideterminabile ai sensi dell’articolo 21 del decreto del Ministero dell’ambiente 28 aprile 1998, n.406”.
L’iscrizione è effettuata mediante richiesta scritta dell’impresa alla competente Sezione regionale dell’Albo, non presuppone la dimostrazione dei requisiti tecnico-finanziari, non è subordinata alla prestazione delle garanzie finanziarie ma semplicemente alla corresponsione di un diritto annuale di iscrizione pari a € 50,00.
L’effettuazione di trasporti di rifiuti in mancanza dell’iscrizione sopraccitata comporta l’applicazione di sanzioni penali.

Questa norma sul trasporto rifiuti deriva da una sentenza della Corte europea di Giustizia. La sentenza Cdge 9 giugno 2005 (causa C-270/03) ha infatti ritenuto contrario al diritto Ue l'articolo 30, comma 4 del Dlgs 22/1997, che permette alle imprese di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare senza obbligo di iscrizione all'Albo nazionale gestori rifiuti; e di trasportare non più di 30 Kg o 30 litri al giorno di propri rifiuti pericolosi, senza obbligo di iscrizione allo stesso Albo. Posto che la sentenza non era di natura "interpretativa" (non è stata emanata ex articolo 234 del Trattato Ue), l'obbligo in essa sancito avrebbe avuto decorrenza dalla modifica della normativa nazionale (per l'appunto quella sopra indicata). La sentenza è conforme alle conclusioni presentate dall'Avvocato Generale Dott. Alessandro Radrizzani: http://www.reteambiente.it/ra/normativa/news/newsnormativa.htm

venerdì 27 aprile 2007

...ancora a proposito di rifiuti sanitari in AD

E' utile consultare la Circolare Ministeriale del Min. Salute n.3 - 08/05/2003 "Raccomandazioni per la sicurezza del trasporto di materiali infettivi e di campioni diagnostici": http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_normativa_394_allegato.pdf

e le Procedure di gestione rifiuti della ASL n. 3 Umbria:
http://portale.asl3.umbria.it/default.aspx?sez=u&pag=&idart=474&idcatnav=377

mercoledì 25 aprile 2007

Infermieri, in Italia ne servono altri 60.000

Roma, 24 apr. (Adnkronos) - Sono troppo pochi gli infermieri in Italia. Ne servirebbero almeno altri 60.000 per soddisfare le esigenze dell'assistenza sanitaria italiana. Oggi, nel nostro Paese, gli infermieri professionali iscritti all'Albo sono circa 340.000, con un rapporto di circa 5,4 per mille abitanti, contro i 9,8 della Germania, i 12,8 dell'Olanda o, addirittura, i 14,8 dell'Irlanda. Mentre, secondo i parametri dell'Ocse, è di 6,9 infermieri per mille abitanti il rapporto ottimale per la regione europea. A conti fatti, dunque, ce ne sono 60.000 in meno nella Penisola. ….. La carenza di queste figure professionali, infatti, ha come conseguenza "il sovraccarico di lavoro per gli infermieri negli ospedali - continua la Silvestro - mentre sul territorio non possono essere sviluppati servizi essenziali, come l'assistenza domiciliare e le residenze sanitarie. Inoltre, è stato dimostrato come la carenza di personale infermieristico determini un allungamento notevole del periodo di degenza in ospedale e l'aumento di 'errori', anche gravi, ma facilmente evitabili”…… da: http://iserentha.spaces.live.com/Blog/cns!E541314AF3989A09!2198.entry

...ancora, sul testamento biologico

Nuvoli: "Ho trovato il medico voglio morire senza soffrire"
Il radicale Viale: "Non si potrà negare lo stesso trattamento di Welby" L'europarlamentare Cappato: "Basta con le torture".

http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/cronaca/eutanasia-sassari/eutanasia-sassari/eutanasia-sassari.html